venerdì 30 maggio 2014

Il verbale ed accordo di conciliazione in materia di usucapione


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VERBALE ACCORDO DI CONCILIAZIONE
USUCAPIONE
 
Riflessioni e suggerimenti operativi

Il Codice civile intende per usucapione il modo di acquisto della proprietà di un bene mediante l’accertamento di un possesso qualificato e del decorso del tempo. In presenza dei predetti presupposti l'acquisto del diritto si produce automaticamente per legge.

Nella letteratura giuridica, l’usucapione è pacificamente considerata un modo di acquisto della proprietà rientrante nella “materia” dei diritti reali, cui l’art.5 D.L.vo n° 28/10 letteralmente si riporta. Tuttavia è bene chiarire da subito che l’usucapione non rientra nella mediazione obbligatoria e quindi non costituisce una condizione di procedibilità per l’accesso alla giustizia ordinaria, viceversa essa potrà essere oggetto di mediazione facoltativa per il solo fatto che l’usucapione non è, come si diceva, un diritto reale, ma un modo di acquisto della proprietà.

La questione che in questa sede si intende approfondire riguarda la funzione ed efficacia del verbale di conciliazione in materia di usucapione.

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Una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. II Sez. Civ. 5 febbraio 2007, n. 2485) riprendendo un proprio orientamento, risalente e consolidato, ha ribadito la piena validità ed efficacia dell' atto pubblico con il quale venga trasferita una proprietà immobiliare della quale l’alienante si dichiari proprietario per usucapione escludendo così la necessità di un previo accertamento giudiziale dell'usucapione medesima.

Osserva in proposito il Supremo Collegio, che negare al proprietario per usucapione la possibilità di disporre del bene usucapito genera: << la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente>>.

Questa recente pronuncia muove da un’interpretazione dell’art. 1158 c.c. secondo la quale l’usucapiente acquisterebbe il diritto di proprietà in maniera automatica per effetto della interazione tra possesso e decorso del tempo, a prescindere da qualsivoglia rapporto con la situazione giuridica precedente. Ne conseguirebbe la non necessità di un previo accertamento giudiziale allo scopo di far ritenere compiuta la fattispecie acquisitiva in presenza del “fatto”.

Tale ricostruzione sistematica, troverebbe conforto testuale nell’art. 1158 c.c.. Recita, infatti, tale norma: << La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni >>. Si è così giunti ad affermare che per la norma in parola:
(i) il solo fatto del possesso continuato per venti anni di un bene mobile o di un diritto reale su un bene immobile produce in capo al possessore l’acquisto del corrispondente diritto;
(ii) l’efficacia acquisitiva (preclusiva) è automatica non richiedendo l'Ordinamento - neppure in funzione di integrazione dell'efficacia della fattispecie acquisitiva - un accertamento giudiziale del fatto.

Il titolo trascritto parrebbe così destinato ad assolvere alla mera funzione di cristallizzare una fattispecie acquisitiva già compiuta al solo fine di garantire la continuità della trascrizione nei registri immobiliari.

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Il verbale di conciliazione sottoscritto dalla parti in mediazione e dallo stesso mediatore, che ne certifica le firme, a chiusura di un procedimento di mediazione ai sensi del Dlgs 28/2011, meramente ricognitivo degli effetti dell’usucapione della proprietà o di altro diritto reale a favore di una di esse, non è di per sé idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari. In questo senso si è pronunciato il Trib. Roma, sezione V civile, con decreto n. 6563 del 22 luglio 2011, interpellato sulla questione dalla Conservatoria alla quale è pervenuta la relativa nota di trascrizione.

La conclusione a cui è giunta la giurisprudenza di merito muove dalla constatazione che l'autonomia delle parti, nella fattispecie in oggetto, incontra un limite invalicabile costituito dalla possibilità a sostituirsi ad una sentenza del giudice solo laddove, col loro contratto, raggiungano un identico risultato. Non si può certamente dire che sia così per l'usucapione.

L'usucapiente, per formalizzare l'acquisto, deve necessariamente esperire un'azione giudiziale per ottenere una sentenza che accerti e dichiari l'avvenuta usucapione. La sentenza è di mero accertamento, con natura dichiarativa e non costitutiva (Cass. 19 marzo 2008, n. 12609; Cass. 5 febbraio 2007, n. 2485). Tale sentenza dovrà essere poi trascritta nei registri pubblici, ai sensi dell'articolo 2651 del Codice civile.

Viceversa l’accordo nel quale le parti si limitano semplicemente a prendere atto del verificarsi dei presupposti legali dell’usucapione non solo non produce alcun effetto costitutivo, modificativo o estintivo di diritti reali, ma neppure configura un negozio di mero accertamento, volto a rimuovere dubbi sui presupposti stessi dell’usucapione. Questa funzione – come sopra evidenziato - compete solamente al giudice e non basta una dichiarazione delle parti per ottenere un identico risultato. Si pensi, ad esempio, se sarebbe mai possibile una separazione consensuale sulla base del semplice accordo di separazione fra le parti senza l’omologa del Giudice. Queste argomentazioni sono state riprese anche dal Tribunale di Varese, con ordinanza del 20 Dicembre 2011 in cui si ribadisce che il verbale di conciliazione “non si surroga alla sentenza…che si figura come indefettibile”.

Né al contrario convincenti sono gli argomenti addotti dalla Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza n. 2485/2007 (per’altro isolata) secondo la quale negare al proprietario per usucapione la possibilità di disporre del bene usucapito genererebbe la: << strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente. Come ciò sia compatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà non viene chiarito>>. Tale conclusione in realtà sarebbe frutto di un’erronea interpretazione letterale dell’art. 1158 c.c. nella parte in cui dispone che: << La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni >>. Dalla lettura di questa disposizione ne deriverebbe in primo luogo che il solo fatto del possesso continuato per venti anni di un bene mobile o di un diritto reale su un bene immobile produrrebbe in capo al possessore l’acquisto del corrispondente diritto; inoltre l’efficacia acquisitiva (preclusiva) sarebbe automatica non richiedendo l'Ordinamento - neppure in funzione di integrazione dell'efficacia della fattispecie acquisitiva - un accertamento giudiziale del fatto.

Secondo invece il prevalente orientamento giurisprudenziale, l'usucapione pur essendo un modo diacquisto originario della proprietà non opererebbe automaticamente con il possesso ventennale. Occorrerebbe, infatti, accertare che tale possesso abbia i requisiti, della pienezza e della esclusività corrispondendo così all'esercizio del diritto di proprietà (o di altro diritto reale). La sussistenza di tali qualità necessarie del possesso deve, secondo quest’orientamento, essere sottoposta esclusivamente all’accertamento giudiziale con la conseguenza che, in difetto, l'acquisto del diritto di proprietà non può essere dichiarato dal possessore. Né si potrebbe in contrario arrivare a sostenere che il Dlgs 28/2011 abbia voluto creare un nuovo modo di acquisto della proprietà diverso da quello tipico dell’usucapione, poiché il semplice "dare atto – in un verbale o accordo di conciliazione - dell'acquisto della proprietà su un bene per usucapione a favore di una parte e a discapito dell'altra" giuridicamente non significa nulla, in quanto la "presa d'atto" o la “mera constatazione” non é ex sé idonea a produrre gli effetti traslativi desiderati in mancanza della sentenza di accertamento del giudice. Né il verbale di conciliazione per sua natura può mai sostituire la sentenza dichiarativa poiché il mediatore - diversamente dal giudice - non ha il potere di sindacare ed accertare in concreto il verificarsi o meno dell’usucapione. Solamente il giudice ha il potere-dovere di valutare e appurare - attraverso un controllo di legalità sostanziale - l'esistenza in concreto dei presupposti dell'usucapione (possesso continuativo, buona fede, nessuna interruzione, ecc..).

Viceversa il mediatore tendenzialmente è un mero "facilitatore", la cui funzione si esaurisce nell’esperire un tentativo di conciliazione limitandosi a recepire o allegare nel relativo verbale le dichiarazioni provenienti dalle parti – unici attori della vicenda controversa - in grado di determinare il risultato della mediazione, non avendo anche (il mediatore) il potere-dovere di effettuare un controllo di legalità nè formale nè sostanziale, se non quello “generico” di verificare che l'accordo non sia contrario a norme imperative, che verta su diritti disponibili e che le parti siano validamente rappresentate in mediazione.

Quello che invece il mediatore potrebbe arrivare a proporre alle parti in mediazione che ne facciano espressa richiesta è la possibilità di raggiungere un identico risultato dell’accertamento dell’usucapione da parte del giudice utilizzando già i modelli predisposti all’uopo dal nostro legislatore. La lite infatti si può evitare solo utilizzando gli strumenti giuridici posti a disposizione dall'ordinamento, non inventando nuovi modelli che la conciliazione non ha creato né aveva alcun intenzione di creare. In pratica in sede di mediazione le parti potrebbero concludere un accordo nel quale una di esse assuma l’obbligo di trasferire il bene controverso all’altro (senza peraltro pretendere alcun corrispettivo) ponendo in essere fra di esse una vera e propria transazione con effetti novativi-traslativi della proprietà del bene rispetto all’originario rapporto oggetto di controversia per il quale è comunque necessario l’intervento notarile ai fini della trascrizione del trasferimento stesso nei pubblici registri immobiliari.

Ai sensi dell'art. 2657 del c.c., la trascrizione non si può eseguire se non in forza di sentenza, di atto pubblico o di scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente. In base a tale disposizione, il cui carattere tassativo è stato più volte ribadito dalla Corte di Cassazione (per tutte vedasi Cass. Civile, 12 marzo 1996, n. 2033), soltanto gli atti aventi i predetti requisiti di forma costituiscono titoli idonei per la trascrizione. La previsione normativa di un requisito minimo di forma per la trascrivibilità degli atti nei registri immobiliari (scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente), risponde non solo allo scopo di stabilire, attraverso un criterio selettivo, i titoli idonei a documentare il fatto giuridico che costituisce l'oggetto proprio della trascrizione, ma anche all'esigenza di garantire che l'accertamento dell'autenticità della sottoscrizione venga svolto da un soggetto "terzo" rispetto ai sottoscrittori e particolarmente qualificato (ufficiale fidefaciente o giudice sentenziante).

In buona sostanza si sostiene che nella scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente l'accertamento operato dall'ufficiale autenticante o dal giudice avrebbe efficacia erga omnes, mentre, al contrario, il riconoscimento, espresso o tacito ad opera delle parti di giudizio di una scrittura privata spiegherebbe un’ efficacia più circoscritta non solo sotto l’aspetto soggettivo (valendo solo tra le parti) ma anche sotto quello oggettivo spiegando una mera funzione probatoria. Gli effetti correlati al riconoscimento assumerebbero, cioè, una rilevanza esclusivamente interna all'ambito dei rapporti intercorrenti tra le parti del processo, per quanto attiene, in particolare, i profili inerenti l'efficacia probatoria della scrittura medesima senza spiegare alcuna efficacia verso i terzi.

E poiché l’elenco di cui all’art. 2657 c.c. è da ritenersi tassativo, soltanto gli atti aventi i predetti requisiti di forma costituirebbero titoli idonei per la trascrizione rispondendo la previsione normativa di un requisito minimo di forma per la trascrivibilità non solo al fine di stabilire, attraverso un criterio selettivo, i titoli idonei a documentare il fatto giuridico che costituisce l'oggetto proprio della trascrizione, ma anche all'esigenza di garantire che l'accertamento dell'autenticità della sottoscrizione venga svolto da un soggetto "terzo" rispetto ai sottoscrittori e particolarmente qualificato (ufficiale fidefaciente o giudice sentenziante). Il verbale di conciliazione in sede non contenziosa relativo a controversie essendo privo dei detti requisiti non potrebbe essere annoverato tra i titoli idonei per la trascrizione ex art. 2657 c.c.

Ciò detto è bene evidenziare che il notaio, al termine dell'avvenuta conciliazione, può "autenticare" solamente accordi che equivalgono agli atti che normalmente può ricevere, non può viceversa sostituirsi al giudice nell'accertare quei fatti (possesso, tempo, buona fede ecc.) la cui sussistenza costituisce il presupposto per una sentenza dichiarativa di usucapione.

Pertanto ai fini della trascrizione dell’usucapione nei RR.II. occorre sempre la sentenza di accertamento del giudice che costituisce l’unico titolo idoneo per trascrivere l'acquisto a titolo di usucapione nei Registri Immobiliari. Questa forma di pubblicità fra l’altro è una mera pubblicità notizia che serve solo a dare certezza giuridica a vicende negoziali nel rispetto del principio della continuità delle trascrizioni. Viceversa, ove si ammettesse la trascrivibilità di un accordo di conciliazione “meramente ricognitivo” dell’usucapione senza una sentenza di accertamento a valle siffatta trascrizione provocherebbe una incertezza nei rapporti giuridici in antitesi con quella che è la funzione tipica dell’istituto della trascrizione.

23 Aprile 2012
Avv. Nicola di Stefano

mercoledì 28 maggio 2014

Cassazione civile , SS.UU., sentenza 14.10.2013 n° 23218

Assemblea Srl valida se l'avviso di convocazione viene spedito almeno 8 giorni prima dell'assemblea

Con riferimento alle disposizioni che regolano il funzionamento della s.r.l., si deve presumere che l'assemblea dei soci sia validamente costituita tutte le volte che l'avviso di convocazione è stato spedito agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell'adunanza, fatto salvo il caso in cui l'atto costitutivo della società non contenga una disciplina differente od un diverso termine.
Detta presunzione può tuttavia essere vinta quando il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, non ha ricevuto l'avviso di convocazione dell'assemblea o lo ha ricevuto in ritardo tanto da non consentirgli di poter partecipare all'adunanza.
Sono questi i principi sanciti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza 14 ottobre 2013, n. 23218.
Il caso ha visto il socio di una s.r.l. in liquidazione impugnare la delibera con cui l'assemblea aveva approvato, in sua assenza, il bilancio della società ed aveva assunto altre delibere connesse. Il socio aveva contestato le deliberazioni sotto differenti profili, lamentando in particolare la violazione dei termini di convocazione dell'assemblea così come stabiliti nello statuto sociale. La società convenuta si costituiva in giudizio, eccependo che l'avviso di convocazione dell'assemblea era stato spedito nel rispetto del termine di quindici giorni così come previsto dallo statuto sociale.
Il giudice di prime cure respinse l'impugnazione proposta dal socio e dichiarò la validità del procedimento e delle deliberazioni adottate dall'assemblea.
La Corte di Appello ribaltò però la sentenza del giudice di primo grado, accogliendo i motivi di gravame formulati dal socio, in quanto ritenne che l'assemblea fosse stata irregolarmente costituita. La Corte di Appello osservò infatti che la raccomandata contenente l'avviso di convocazione, sebbene fosse stata spedita tempestivamente, risultava però essere stata ricevuta dal destinatario in ritardo, cioè il giorno stesso della riunione.
Non era inoltre stata fornita la prova del fatto che la tardiva ricezione fosse dipesa da irreperibilità del destinatario o dall'assenza da casa di persona di famiglia autorizzata a ricevere la posta o comunque da cause imputabili al ricevente. La Corte di Appello reputò poi irrilevante la notifica di un secondo avviso di convocazione dell'assemblea in quanto detta comunicazione era stata spedita e ricevuta dal socio in un termine inferiore a quello previsto dallo statuto sociale.
Contro la sentenza della Corte di Appello, la società ha proposto ricorso per cassazione, denunciando la violazione e la falsa applicazione dei principi di diritto in materia di spedizione dell'avviso di convocazione dell'assemblea.
La prima sezione della Corte di Cassazione investita della trattazione del ricorso ha tuttavia ritenuto necessario sollecitare la rimessione dello stato alle sezioni unite in quanto ha ravvisato la sussistenza di questioni di particolare importanza concernenti il procedimento di convocazione dell'assemblea di
società a responsabilità limitata.
Le Sezioni Unite della Cassazione sono dunque state chiamate a rispondere sulla possibilità di attribuire rilevanza decisiva, ai fini della validità ed efficacia della convocazione del socio avente diritto a partecipare alla assemblea, alla mera spedizione dell'avviso entro il termine indicato nell'atto costitutivo della
società o nel termine prescritto dall'art. 2484 c.c. - in vigore ante riforma - ed ora sostituito dall'art. 2479 bis c.c.
Per le medesime finalità, le Sezioni Unite della Cassazione si sono altresì interrogate in merito all'opportunità di attribuire rilevanza al fatto che l'avviso di convocazione spedito nel rispetto del termine indicato nell'atto costitutivo o nel termine fissato dalla legge sia pervenuto al destinatario in tempo utile al fine di consentire al socio di poter partecipare all'assemblea.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto indispensabile inquadrare il problema richiamando i principi che soggiaciono alla regolare formazione di un atto collegiale quale è la delibera assembleare di una società. La formazione di un atto collegiale può infatti ritenersi valida quando questa promana da un organo idoneamente costituito. La costituzione dell'organo può dirsi regolare se tutti coloro i quali sono chiamati a formarne la volontà sono stati posti nella condizione di poterlo fare. Per quanto concerne l'assemblea della società è dunque necessario che i soci e più in generale i titolari del diritto di partecipare ed esprimere il proprio voto devono dunque essere messi nella condizione di poter esercitare il loro diritto.
L'art. 2484 c.c. (norma dispositiva) – vigente al tempo dei fatti – oggi art. 2479 bis c.c. (norma suppletiva) disciplinano il procedimento di convocazione dell'assemblea quale presupposto della regolare costituzione dell'organo collegiale investito del potere di esprimere la volontà della compagine sociale.
Le norme sopra richiamate specificano infatti sia il modo di convocazione dell'assemblea che va effettuata a mezzo di lettera raccomandata, sia il contenuto essenziale dell'avviso, poiché esso deve contenere l'ordine del giorno e le indicazioni relative al tempo ed al luogo in cui verrà tenuta la riunione, sia il termine entro cui detta comunicazione deve essere spedita.
Per poter dare risposta al quesito loro formulato, i giudici di legittimità hanno ritenuto di prestare particolare attenzione proprio alla disposizione che regola il termine entro cui l'avviso di convocazione deve essere oggetto di spedizione.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno infatti evidenziato come l'art. 2484, comma 1, c.c. e l'art. 2479 bis, comma 1, c.c. facciano testualmente riferimento alla “spedizione” e non alla “ricezione” dell'avviso di convocazione dell'assemblea, disponendo che quest'ultima deve avvenire con un determinato anticipo rispetto all'assemblea dei soci.
Per i giudici di legittimità è pertanto necessario fare unicamente riferimento al momento della spedizione dell'avviso e non alla ricezione ai fini del perfezionamento del procedimento di convocazione dell'assemblea dei soci.
Tale impostazione non determinerebbe poi un sacrificio del diritto del socio in rapporto alla necessità di garantire la certezza e la celerità del procedimento, in quanto i giudici di legittimità hanno sottolineato come la disciplina codicistica ha carattere comunque derogabile (e suppletiva per quanto concerne l'art. 2479 bis, comma 1, c.c.).
I soci che intendano tutelare maggiormente il loro diritto di partecipazione informata all'assemblea avrebbero comunque la possibilità di concordare una disciplina differente al momento della stipulazione dell'atto costitutivo della società che faccia cioé decorrere il termine di convocazione effettiva dalla ricezione dell'avviso e non dalla sua spedizione.
Nel caso in cui sia mancante una disposizione statutaria caratterizzata da tale tenore derogatorio, i giudici di legittimità hanno affermato che trovi dunque inesorabilmente applicazione il dettato normativo fissato ex art. 2484, comma 1, c.c. ora ex art. 2479 bis, comma 1, c.c. con riferimento alla disciplina prevista dal nostro legislatore per la s.r.l., non essendo peraltro possibile fare ricorso al procedimento analogico, al fine di richiamare regole stabilite per altri tipi di società di capitali, stante l'insussistenza nel caso di specie di alcuna lacuna normativa.