venerdì 11 luglio 2014

Responsabilità dell'appaltatore per difetti di costruzione



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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - SENTENZA 18 giugno 2014, n.13882


Massima

1. Il difetto di costruzione che, a norma dell'art. 1669 c.c., legittima il committente all'azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell'appaltatore, come del progettista, può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e perciò non determinandone la rovina o il pericolo di rovina), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne consentono l'impiego duraturo cui è destinata, incida negativamente e in modo considerevole sul godimento dell'immobile medesimo.

2. I gravi difetti che, ai sensi dell'art. 1669 c.c., fanno sorgere la responsabilità dell'appaltatore nei confronti del committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura.

Caso

Con citazione notificata il 29 gennaio 1999, S.G. e V.E. convenivano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Pordenone, M.R. e T.P. esponendo che avevano stipulato un contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di una casa di civile abitazione in (OMISSIS) nel gennaio 1995 con il M.; che progettista era stato il geom. T.; che l'opera aveva evidenziato, a seguito di una perizia eseguita il 28 luglio 1997 dal geom. Z., gravi vizi dipesi sia dalla cattiva esecuzione dei lavori sia da difetti di progettazione e direzione, che erano stati denunciati il 4 agosto 1997. Tanto premesso gli attori chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni quantificati in L. 133.407.738.

Si costituiva il M. eccependo in via preliminare la decadenza e la prescrizione dell'azione proposta, in quanto i lavori di costruzione del grezzo erano stati terminati nell'autunno del 1995, sicchè la denuncia era tardiva. Nel merito chiedeva il rigetto della domanda, assumendo che i lavori erano stati eseguiti secondo le precise indicazioni degli attori, che in corso d'opera avevano richiesto modifiche.

Si costituiva anche il T. eccependo la prescrizione e la decadenza dell'azione e chiedendo nel merito il rigetto della domanda, precisando che era stato sostituito dall'Ing. Q. nella direzione dei lavori sin dall'agosto 1995. Chiedeva comunque di essere autorizzato a chiamare in causa la Giuliana Assicurazioni s.p.a. per essere da questa manlevato.

Quest'ultima si costituiva e chiedeva il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti, non rientrando i vizi denunciati nella garanzia assicurativa.

Espletata una c.t.u. ed istruita la causa a mezzo esame dei testi indotti dalle parti, l'adito Tribunale condannava il M. a risarcire agli attori la somma di Euro 30.295,36, oltre agli interessi e alle spese; condannava gli attori a rifondere le spese in favore del T. e quest'ultimo a pagare le spese della Giuliana Assicurazioni.

Proponeva appello il M., cui resistevano il S. e la V., i quali proponevano altresì appello incidentale chiedendo che la condanna venisse estesa anche al T.;

quest'ultimo si costituiva e chiedeva il rigetto dell'appello incidentale.

L'adita Corte d'appello di Trieste, con sentenza depositata il 4 novembre 2006, in parziale accoglimento dell'appello principale e in accoglimento di quello incidentale, condannava il M. e il T. in solido tra loro al pagamento della somma di Euro 22.548,51, oltre interessi e rivalutazione monetaria, e rideterminava le spese del giudizio.

La Corte d'appello rigettava in primo luogo i motivi con i quali si faceva valere la tardività della denuncia dei vizi. Premesso che la domanda proposta doveva essere qualificata come azione extracontrattuale ex art. 1669 c.c., e che quindi il termine prescrizionale era di dieci anni e quello di decadenza di un anno dalla scoperta dei vizi, la Corte riteneva che non vi fosse alcun elemento in atti per supporre che la consapevolezza, da parte dei committenti, della esistenza dei vizi denunciati, della loro gravità e della responsabilità dell'appaltatore e del progettista-direttore dei lavori potesse essere maturata prima della perizia consegnata dal geom. Z. agli attori stessi nel luglio 1997. Osservava, in particolare, che nella specie si trattava di vizi inerenti ad una costruzione, difficilmente apprezzabili in assenza di cognizioni specialistiche, e che la consapevolezza in capo ai committenti doveva ritenersi acquisita solo con la perizia dai medesimi richiesta al geom. Z.. Nè poteva ritenersi che l'avvenuto pagamento di un acconto o anche del saldo comportasse l'accettazione dell'opera, atteso che la mera presa in consegna dell'opera non equivale ad accettazione; del resto, il contratto di appalto prevedeva un'accettazione da effettuare mediante verifica in contraddittorio e stesura di un verbale.

Nel merito, la Corte rilevava che le conclusioni del CTU avevano evidenziato l'esistenza di sei gruppi di vizi, il più problematico dei quali era quello relativo al tetto. In proposito, la Corte riteneva che, come denunciato dall'appellante principale, il CTU fosse incorso in una duplicazione parziale del risarcimento, avendo incluso una componente sia per il rifacimento delle opere interessate, sia per la perdita di valore del fabbricato per effetto della erronea esecuzione della copertura. Nella specie, escluso che potesse procedersi alla esecuzione in forma specifica mediante rifacimento del tetto, trattandosi di attività eccessivamente onerosa, la Corte riteneva che agli appellati dovesse essere riconosciuto il danno da perdita di valore e non anche quello per la nuova esecuzione delle opere; sicchè dalla somma indicata complessivamente dal CTU doveva essere detratto l'importo di 15.000.000 di lire, computate a titolo di rifacimento del tetto.

Per il resto, la Corte d'appello dava atto della natura strutturale di tutti i vizi denunciati, i quali erano a tal punto correlati tra di loro da non consentire una distinzione tra vizi meno gravi (art. 1667 c.c.) e vizi più gravi, soggetti alla disciplina di cui all'art. 1669 c.c..

In ordine alla quantificazione dei danni la Corte d'appello rilevava che dalla relazione del CTU emergeva chiaramente che i difetti esaminati e valutati erano tutti di tipo strutturale e non avevano a che fare nè con le rifiniture fatte eseguire dai committenti da altre imprese, nè con la modificazione delle tramezzature interne denunciate al Comune come variante al progetto approvato ed eseguito dalla impresa del M.. Ed ancora, la Corte escludeva la rilevanza della deduzione del M., secondo cui alcuni dei difetti contestatigli sarebbero stati riferibili a modifiche richiestegli dai committenti, non avendo il M. provato che vi fosse stata una qualche modifica concordata tra le parti, nè che fosse intervenuta l'autorizzazione scritta da parte del committente alle modifiche apportate unilateralmente dall'appaltatore.

La Corte accoglieva infine l'appello incidentale dei committenti, rilevando che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile la disciplina di cui all'art. 2226 c.c., atteso che l'azione proposta era un'azione ex art. 1669 c.c., soggetta al diverso termine di prescrizione decennale, non maturato nella specie, sicchè il progettista-direttore dei lavori era tenuto a rispondere in solido con l'appaltatore.

Per la cassazione di questa sentenza M.R. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi; il T. ha proposto controricorso aderendo alle ragioni del ricorrente principale e ha a sua volta proposto ricorso incidentale affidato a due motivi; il S. e la V. hanno resistito con unico controricorso ad entrambi i ricorsi.

L'assenza dell'abitabilità nella vendita immobiliare



CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE , SENTENZA 11 ottobre 2013 n. 23157
Pres. Triola – est. Manna

Massima
1. La consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.

2. Nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere la determinata funzione economico-sociale negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto il compratore ad effettuare l'acquisto. Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari.

Ricognizione
La abitabilità-agibilità (la distinzione è solo terminologica e, anzi, l’art. 24 del D.Lgs. n. 380/2001 reca il titolo “certificato di agibilità”) consiste nel nulla osta rilasciato dal Comune, con il quale si attesta l'idoneità igienico-sanitaria del locale da occupare.
Il II comma dell'art. 221 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 (t.u. delle leggi sanitarie) sanziona penalmente il proprietario che abita o fa abitare un edificio privo del necessario certificato.
Di conseguenza, la consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto
Del resto, soccorre anche l’art. 1490 c.c., impositivo, per il venditore, di un onere di garanzia per i vizi della cosa venduta che “la rendano inidonea all’uso a cui era destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore".
Per giurisprudenza pacifica, la fattispecie in esame configura un’ipotesi di vendita “aliud pro alio”.
Essa consiste nella consegna da un bene completamente diverso da quello pattuito, in quanto riconducibile ad un differente genere o comunque privo delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell’acquirente o, ancora, contrassegnato da difetti che la rendano del tutto inservibile. 
E senza dubbio il certificato di abitabilità o di agibilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto, poiché vale ad incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico - sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità e, quindi, a soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto l'acquirente ad effettuare l'acquisto.
Di tal che, nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la licenza di abitabilità è un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere la determinata funzione economico-sociale negoziata, e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto il compratore ad effettuare l'acquisto. Pertanto, la mancata consegna del certificato di abitabilità implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari.