mercoledì 17 giugno 2015

PROROGATIO IMPERII: L'amministratore di condominio prescinde dal mandato



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Prorogatio: si resta in carica anche dopo la scadenza del mandato


Facciamo chiarezza sull’annosa questione dei poteri dell’amministratore di condominio a mandato finito. 

L’amministratore dimissionario o revocato, anche se cessato dall’incarico, è comunque tenuto «ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi» (articolo 1129, comma 8 c.c. del Codice civile).

Tale norma, cambiata dalla legge 220/2012, si applica in tutti i casi di cessazione del rapporto di mandato per effetto di rinuncia, mancata conferma, revoca assembleare e/o giudiziaria (articolo 71 bis, lettere a) - e) delle Disposizioni di attuazione del Codice civile).

Le innovazioni apportate dalla L. 220/2012 non hanno dunque scalfito i principi posti dalla Suprema Corte di Cassazione per giustificare la prorogatio: (i) carattere perenne e necessario dell’ufficio di amministratore (ii) ed interesse del condominio alla continuità dell’amministratore.

Con il nuovo articolo 1129 del Codice civile non solo è stata prevista la continuità dell’attività dell’amministratore cessato (in attesa di nomina del subentrante), ma è stato anche ridotto il suo ambito di operatività, potendo compiere soltanto attività urgenti e non pregiudizievoli agli interessi del condominio, addirittura senza compenso. Solo quelle attività rientranti nell’articolo 1129 producono effetti nei confronti del condominio. Al di là di tali limiti, l’atto resta a carico del mandatario salvo ratifica da parte dell’assemblea (articolo 1711 del Codice civile).

Si tratta probabilmente di una norma che vuole “responsabilizzare” il condominio, in tutte e due le sue componenti: evitare il cristallizzarsi di una situazione di illegalità, stimolare i condomini a nominare un nuovo amministratore per sbloccare una gestione che rimarrebbe paralizzata a pochi atti, costringere l’amministratore a convocare assemblea per la nomina del suo successore dovendo diversamente lavorare senza compenso, offrendo a entrambi, in caso di impossibilità di nomina da parte dell’assemblea, a rivolgersi al giudice per la nomina di un amministratore giudiziario (articolo 1120, comma 1 del Codice civile).

domenica 3 maggio 2015

Anatocismo bancario è illegittimo dal 1 gennaio 2014 (Tribunale di milano)



L’anatocismo bancario è una pratica illegittima per il Tribunale di Milano (ord. 25.03.2015 e 3.04.2015)


Il Tribunale di Milano ha vietato agli istituti di credito coinvolti di dare corso a qualsiasi ulteriore forma di anatocismo degli interessi passivi, già in essere o da stipulare, con decorrenza dal primo gennaio 2014.

Infatti nell’attuale versione del testo unico bancario, come modificato dalla legge di stabilità approvata a fine 2013, vieta l’anatocismo bancario. Si legge, infatti, nella norma che “gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori”. Tale disposizione è già in vigore dal primo gennaio 2014.

Ne consegue dunque che a partire da tale data gli interessi anatocistici percepiti dalle banche sono illegittimi e, su richiesta del cliente, devono essere interamente restituiti.

mercoledì 29 aprile 2015

Estratto di ruolo: è possibile impugnare gli estratti ruolo in assenza della cartella di pagamento




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Estratto di ruolo:  E’ possibile impugnarlo autonomamente ?


Non sembrerebbero sussistere dubbi circa l'impugnabilità del ruolo (oltre alle relative cartelle di pagamento), atteso che lo stesso è annoverato fra gli atti impugnabili innanzi alla giurisdizione delle Commissioni tributarie di cui all'art. 19 - D.Lgs. n. 546/92.

Invero, l'art. 19, sopra citato, rubricato “Atti impugnabili e oggetto del ricorso”, al comma 1 così recita: «Il ricorso può essere proposto avverso: a) …; d) il ruolo e la cartella di pagamento; …..».

Sul punto inoltre è intervenuta la Suprema Corte con le sentenze n. 724 del 19/01/2010, n. 15946/2010 e n. 27385 del 18/11/2008 dove in modo ineccepibile ha precisato che «… In tema di contenzioso tributario, va riconosciuta la possibilità di ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992, atteso l’indubbio sorgere in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, “ex” art. 100 cod. proc. civ., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale (ormai allo stato esclusiva del giudice tributario), comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico (Cass. 27385/2008, cfr. in ordine alla sussistenza dell’interesse ad impugnare anche S.U. 11087/2010); considerato che assai recentemente è stato statuito che anche l’estratto di ruolo può essere oggetto di ricorso alla commissione tributaria, costituendo esso una parziale riproduzione del ruolo, cioè di uno degli atti considerati impugnabili dall’art. 19 del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546». (Cass. del 19/01/2010 n. 724).

Allo stesso modo nella recente sentenza 3 febbraio 2014, n. 2248 la diretta impugnazione dell’estratto di ruolo, secondo tale orientamento, troverebbe legittimazione proprio nella formazione del ruolo, ovvero “l’atto con cui l’Amministrazione concretizza nei confronti del contribuente una pretesa tributaria definita, compiuta e non condizionata”.

Né è sostenibile che il ricorso avverso al ruolo sia una mera azione preventiva di accertamento negativo del tributo, poiché ciascun estratto di ruolo porta l’indicazione della notifica delle relative cartelle di pagamento e, qualora tali dati non corrispondano alla realtà in quanto le cartelle non sono state effettivamente notificate ovvero il procedimento notificatorio è stato irrituale, sussiste l’interesse processuale del contribuente, ex art. 100 c.p.c., il quale deve potersi opporre e impugnare gli estratti di ruolo e gli atti che lo stesso presuppone al fine di poterne chiedere l’annullamento. 

E’, inoltre, diritto positivo (argomenta ex art. 19, comma 1, lett.) d - D. Lgs. n. 546/1992) che il ruolo e la cartella di pagamento, siano atti impugnabili, per come evincibile anche dall’art. 39, co. 1 - Dpr. n. 602/1973 (Riscossione Imposte) rubricato “Sospensione amministrativa della riscossione”, secondo il quale “IL RICORSO CONTRO IL RUOLO DI CUI ALL’ART. 19 DEL D. LGS. 31 DICEMBRE 1992, N. 546, non sospende la riscossione, tuttavia, l’ufficio ».

Si aggiunga inoltre che la non impugnabilità degli estratti di ruolo porterebbe alla paradossale conseguenza per cui il contribuente che viene a conoscenza di una notifica errata e/o inesistente effettuata nei suoi confronti, rimarrebbe esposto agli effetti della presupposta notificazione (azioni esecutive, interessi di mora che continuano a prodursi, ecc..), senza tutela giudiziaria, trovandosi costretto ad attendere la notifica dell’atto successivo sicuramente più invasivo (non di rado accade che il concessionario, che dà per scontata la notifica della cartella, procede, ex art. 72 bis del d.p.r. n. 602/73, alla notifica di un atto di pignoramento nei confronti del contribuente).

Non solo; a seguito dell’impugnazione dell’atto successivo (atto di pignoramento presso terzi, avviso di intimazione, ecc…) il contribuente rischierebbe l’inammissibilità del ricorso con il quale contesti l’omessa notifica della cartella, ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 546/92, ove il Concessionario riesca a dimostrare che il ricorrente era venuto a conoscenza della notifica della cartella a seguito della richiesta dell’estratto di ruolo.

Pur tuttavia in giurisprudenza esiste un orientamento di segno contrario (sentenze nn. 6395/2014, 6610/2013, 6906/2013 e 139/2004), che considera l’estratto di ruolo non autonomamente impugnabile sulla base della natura di “atto interno” del ruolo, con la conseguenza che lo stesso può essere ex sé impugnabile solo in via eccezionale, e precisamente (i) quando i vizi del ruolo, per effetto di specifiche norme di legge - quale l’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973 con cui si fissano i termini per la iscrizione - si riflettono sul rapporto tributario; (ii) quando il ruolo sia stato notificato autonomamente rispetto alla cartella, assurgendo così alla funzione di atto impositivo.

martedì 28 aprile 2015

Plusvalenza immobiliare in cartella esattoriale




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PLUSVALENZE IMMOBILIARI

 

Evoluzione della disciplina tributaria in tema di rilevanza delle plusvalenze immobiliari

Con il termine “plusvalenza” si intende la differenza tra il valore attuale di un bene ed il suo costo d'acquisizione.  Per “bene” si intende qualunque cosa commerciabile,  purché diversa dal denaro/moneta per le seguenti ragioni: la svalutazione monetaria (in tal caso ciò che muta non è il valore del bene ma la sua espressione monetaria), le favorevoli condizioni di mercato e la diversa destinazione del bene (in tali casi aumenta il valore del bene e solo come conseguenza aumenta anche la quantità di moneta che lo rappresenta).
Mentre in passato il legislatore aveva elaborato la nozione di intento speculativo quale criterio residuale di identificazione di ulteriori categorie di redditi altrimenti soggetti ad imposta, la disciplina contenuta negli artt. 81 e ss. (ora 67 e ss.) del nuovo T.U.I.R., contempla invece una casistica tassativa di singole fattispecie da assoggettare ad imposta, quali redditi diversi, al di fuori delle quali non è configurabile alcuna ulteriore ipotesi di plusvalenza tassabile.

Le plusvalenze assoggettabili ad imposta sostitutiva. Profili soggettivi

Per ciò che attiene al profilo soggettivo, in primo luogo occorre osservare che, essendo le ipotesi evocate dal comma 467 quelle di cui all'art. 67, comma 1, lett. b) del T.U.I.R., e cioè - come si è detto -quelle classificate come redditi diversi, la disciplina recata dal comma 467 si rende applicabile alle sole cessioni che non producano redditi viceversa da assoggettare ad imposta quali redditi di capitale, ovvero conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente: così dispone lo stesso art. 67.
Conseguentemente, restano esclusi dalla disciplina:
1. gli imprenditori individuali relativamente alle cessioni di beni immobili che costituiscano beni relativi all'impresa, ai sensi dell'art. 65 T.U.I.R., e, perciò, i beni merce, i beni strumentali per natura o per destinazione ed altri beni (patrimoniali), ove - questi ultimi - siano indicati nell'inventario redatto ai sensi dell'art. 2217 c.c., ovvero, per le imprese minori, nel registro dei beni ammortizzabili o secondo le modalità previste dall'art. 66, coma 2, del T.U.I.R.;
2. le società e gli enti commerciali di cui all'art. 73, comma 1, lett. a) e b) T.U.I.R., in quanto i redditi derivanti dalla cessione a titolo oneroso, da parte di costoro, di beni immobili producono il realizzo di ricavi (cfr. art. 85 T.U.I.R.) o di plusvalenze (cfr. art. 86 T.U.I.R.);
3. gli enti non commerciali per ciò che attiene alla cessione di immobili relativi all'impresa eventualmente da essi esercitata.

Le plusvalenze assoggettabili ad imposta sostitutiva. Profili oggettivi

Il legislatore ha inteso individuare analiticamente le fattispecie in ordine alle quali trova applicazione la possibilità di opzione per la nuova imposta sostitutiva.
Presupposto dell'imposizione ex art. 67 T.U.I.R. è l'onerosità della cessione.
Circa tale requisito (l'onerosità della cessione), si rileva che esso ricorre in ogni ipotesi in cui la cessione non avvenga mortis causa o a titolo di donazione, e, quindi, oltre che nei tradizionali negozi di vendita, permuta, conferimento in società, datio in solutum, transazione, ecc., anche nel caso di cessione gratuita ma non donativa dell'immobile plusvalente.
Ai sensi, poi, dell'art. 9, comma 5, T.U.I.R., deve osservarsi che, ai fini delle imposte sui redditi, e quindi - conseguentemente - anche agli effetti delle imposte sostitutive di queste ultime, le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti titolo oneroso che importino costituzione o trasferimento di diritti reali.
Per questa ragione, la cessione onerosa della nuda proprietà e quella dell'usufrutto sono da considerarsi comprese nella previsione dell'art. 67, comma 1, lett. b) del T.U.I.R., mentre, per espressa disposizione, la cessione dell'usufrutto (evidentemente da parte dell'usufruttuario) costituito dal nudo proprietario realizza la diversa ipotesi impositiva di cui alla successiva lett. h) dello stesso articolo.
Sempre con riferimento ai profili oggettivi, viene poi ad evidenza l'ipotesi, contemplata dall'art. 67 del T.U.I.R., di assoggettamento ad imposta della plusvalenza realizzata mediante la cessione di beni (fabbricati) costruiti nel quinquennio, e, più precisamente, l'ipotesi di ricostruzione di fabbricato andato distrutto (fattispecie non considerata dalla norma).
A profili di più incerta interpretazione dà poi luogo il caso in cui il bene la cui cessione sia, in ipotesi plusvalente, pervenga a titolo originario, e cioè per usucapione.  E’ preferibile l’opinione che enfatizza la locuzione «in ogni caso» che introduce la seconda parte della cennata lett. b), e la cessione sarebbe per l'appunto comunque da assoggettare a tassazione, e, per determinare il prezzo di acquisto, dovrebbe farsi riferimento al valore dichiarato o liquidato del bene usucapito quale risultante dalla registrazione della sentenza dichiarativa di usucapione (C.M. 31 marzo 2003 n. 78).

 

L'imposta sostitutiva. Gli effetti dell'opzione in relazione all'attività di accertamento da parte dell'Amministrazione finanziaria

Per effetto dell'opzione:
a. il cedente resta escluso dai controlli nell'ambito delle vendite immobiliari in base alle norme contenute nel titolo IV del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e cioè dalle verifiche tese a contrastare fenomeni di evasione cui, per effetto del già citato comma 495, l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza sono chiamati a destinare quote significative delle loro risorse;
b. il cedente non è soggetto all'applicazione del disposto del citato art. 38, comma 3, del D.P.R. 600/1973, secondo cui «l'incompletezza, la falsità e l'inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione, salvo quanto stabilito dall'art. 39, possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le dichiarazioni relative ad anni precedenti e dai dati e dalle notizie di cui all'articolo precedente anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti».
Le esclusioni si riferiscono, naturalmente, solo all'operazione di cessione per la quale sia stata esercitata l'opzione, dovendosi ragionevolmente ritenere che l'Amministrazione finanziaria conservi, nella sua interezza, ogni più ampio potere di verifica e di accertamento con riferimento ad eventuali ulteriori operazioni e, più generalmente, con riguardo all'intera "posizione fiscale" del contribuente.
Ulteriore indubbio vantaggio per il contribuente, poi, è la misura dell'imposta.
Infatti, ancorché non precisato nel comma 496, che nulla dispone in ordine alla determinazione della base imponibile sulla quale applicare l'imposta sostitutiva del 12,50%, deve pacificamente ritenersi che quest'ultima non vada applicata sul corrispettivo dichiarato in atto ma sulla base imponibile determinata secondo le modalità indicate nell'art. 68 del T.U.I.R..
A fronte del regime ordinario relativo a tale categoria di reddito, che, come è noto, concorre alla formazione del reddito complessivo del contribuente che realizza la plusvalenza, nonché in relazione alle aliquote attualmente vigenti per le imposte sui redditi (la più bassa delle quali, allo stato, è del 23% per le persone fisiche, le società semplici e per i soggetti non imprenditori in genere), l'aliquota del 12,50% rappresenta un rilevante vantaggio per il contribuente: salvo casi marginali, infatti, quali, a titolo esemplificativo, l'eventuale credito o l'eventuale diritto a deduzioni e/o detrazioni, la misura dell'imposta sostitutiva risulta inferiore, nella generalità delle ipotesi, all'aliquota media dell'imposta sui redditi.

 

La determinazione della base imponibile secondo le regole dell'art. 68 del T.U.I.R.

Come già osservato, le regole per la determinazione della base imponibile dell'imposta sostitutiva sono quelle ordinariamente disposte dal T.U.I.R., art. 68, per l'assoggettamento ad imposta delle plusvalenze indicate nel precedente art. 67.
Salvo quanto si dirà, in appresso, relativamente alle modificazioni recate alla normativa dalla legge n. 248 del 2006 in relazione alla provenienza per donazione del bene plusvalente, si può, pertanto, offrire il seguente schematico quadro.
Immobili diversi dai terreni edificabili:
plusvalenza = corrispettivo percepito - (costo di acquisto o di costruzione + altri costi inerenti).
Terreni edificabili acquistati a titolo oneroso:
plusvalenza = corrispettivo percepito - (prezzo di acquisto + altri costi inerenti, entrambi rivalutati per indice Istat).
Terreni edificabili acquistati per donazione o mortis causa:
plusvalenza = corrispettivo percepito - (valore dichiarato o accertato in atto o in dichiarazione + costi inerenti, entrambi rivalutati per indice Istat in forza della nota sentenza della Corte Costituzionale 9 luglio 2002, n. 328).

Cessione di contratto preliminare : trattamento fiscale delle plusvalenze
Con la Risoluzione 6/E del 19 gennaio 2015 l’Agenzia delle entrate ha chiarito che nel caso in cui il promissario acquirente ceda a terzi il contratto preliminare di acquisto di un immobile, il corrispettivo percepito, ai fini della tassazione dell’eventuale plusvalenza (ovvero della differenza esistente tra il corrispettivo percepito per la cessione del contratto e l’ammontare dell’anticipo/anticipi versato/versati al promittente venditore), rientra tra i redditi diversi di cui all’articolo 67, comma 1, lettera l) T.U.I.R. (corrispettivo percepito per obbligo di non fare). 


La giurisprudenza tributaria in materia di plusvalenze immobiliari
Con la sentenza n. 17653/2014 la Corte di Cassazione chiarisce che per quanto concerne l’imposizione da applicare nella cessione di immobile sulla plusvalenza realizzata rileva il valore finale del bene.  Questo significa che la plusvalenza, ovvero la differenza tra quanto calcolato per l’imposta di registro e il corrispettivo dichiarato nell’atto, costituisce una maggiore componente positiva di reddito realizzata dai venditori. Prendendo in considerazione per la plusvalenza ai fini IRPEF il valore finale dell’immobile, spiegano i giudici supremi, fa sì che non venga leso il diritto del contribuente, al quale viene lasciata libertà di contestare la somma rilevata.
Con la sentenza n. 245/2014 la Corte di Cassazione in tema di accertamento delle imposte sui redditi, stabilisce che ove sia contestata una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione a titolo oneroso di un’unita’ immobiliare, l’onere di fornire la prova che l’operazione e’ parzialmente (quanto al prezzo di vendita) simulata incombe all’Amministrazione finanziaria, la quale adduca l’esistenza di un maggiori ricavi.

domenica 22 marzo 2015

Avvisi accertamento Agenzia delle Entrate -- nomina illegittima dei funzionari




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* * *


A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015, che ha dichiarato illegittimo il D.L. n. 16/2012 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), la nomina dei funzionari di AdE che hanno firmato gli atti di accertamento deve ritenersi nulla con effetto retroattivo. Ne consegue che, alla data in cui sono stati formati e firmati gli atti prodromici, i funzionari erano privi dei poteri per poter impegnare e rappresentare l’Ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate.

La sentenza di mercoledì della Corte Costituzionale, con cui sono state annullate le nomine di 1.200 funzionari dell'AdE al ruolo di dirigente per assenza di pubblico concorso, pone il problema dei possibili effetti sugli atti di accertamento firmati da tale personale privo di poteri.

Ora, di conseguenza, potrebbero risultare nulle anche gli avvisi di accertamento firmati dagli stessi, poiché si tratterebbe di atti illegittimi provenienti da soggetti non legittimati.

Cartelle esattoriali Equitalia sono nulle!




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A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015, che ha dichiarato illegittimo il D.L. n. 16/2012 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), la nomina dei funzionari di AdE che hanno firmato gli atti di accertamento deve ritenersi nulla con effetto retroattivo. Ne consegue che, alla data in cui sono stati formati e firmati gli atti prodromici, i funzionari erano privi dei poteri per poter impegnare e rappresentare l’Ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate.

La sentenza di mercoledì della Corte Costituzionale, con cui sono state annullate le nomine di 1.200 funzionari dell'AdE al ruolo di dirigente per assenza di pubblico concorso, pone il problema dei possibili effetti sugli atti di accertamento firmati da tale personale privo di poteri.

Ora, di conseguenza, potrebbero risultare nulle anche gli avvisi di accertamento firmati dagli stessi, poiché si tratterebbe di atti illegittimi provenienti da soggetti non legittimati.

  

ESCLUSIONE SOCIO DI SRL. Come vendere le quote del socio escluso senza bloccare la società




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ESCLUSIONE DEL SOCIO DI SRL


Una massima importante del CNF ammette la possibilità per l’amministratore di vendere autonomamente le quote del socio escluso senza passare per la delibera dei soci, evitando così l’ostruzionismo del socio escluso.

Nei casi di esclusione per cause statutarie del socio di Srl, pur in assenza di uno specifico mandato contenuto nello statuto sociale, l’organo amministrativo è legittimato al trasferimento delle partecipazioni del socio escluso al prezzo determinato secondo le regole statutarie e le norme di legge.

E’, quindi, legittima la clausola statutaria che disciplini tale potere dell’organo amministrativo prevedendo anche la facoltà, per l’amministratore che sia socio, di contrarre con se stesso ai sensi dell’art. 1395 del Codice Civile, previa definitiva determinazione del valore di liquidazione ai sensi delle regole statutarie e delle norma di legge.

(Massima n. 44/2014 elaborata dalla Commissione Società del Consiglio Notarile di Firenze).

RECESSO SOCIO SRL Conseguenze sul capitale sociale




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RECESSO SOCIO SRL

RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE

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In merito ad un quesito piuttosto ricorrente nella prassi, si segnala sull’argomento una massima del CNF

“Qualora, a seguito di recesso, il rimborso del socio receduto debba essere eseguito, ai sensi degli artt. 2437 quater, sesto comma, c.c. e 2473, quarto comma, c.c., mediante riduzione del capitale sociale, la misura della riduzione imposta dal legislatore in tale occasione e' pari al valore nominale della partecipazione del socio receduto che viene annullata e non all'importo che deve essere liquidato al receduto.
Qualora, a seguito di tale riduzione, il capitale sociale si riduca al di sotto del minimo legale, la società può procedere a tale riduzione purché contestualmente deliberi la trasformazione in un diverso tipo sociale compatibile con la ridotta misura del capitale ovvero proceda alla ricostituzione del capitale alla misura minima richiesta”

(Massima n. 8/2009 elaborata dalla Commissione Società del Consiglio Notarile di Firenze)

Quindi in caso di riduzione del capitale al di sotto del limite legale, si applica pur sempre la disciplina ex art. 2482 ter c.c. anche quando la riduzione del capitale non sia conseguente ad una perdita economica ma conseguenza del venir meno della partecipazione di uno dei soci.

Anche in questo casi dunque le alternative sono: (i) trasformazione regressiva (ad es. srl si trasforma in sas o snc, o addirittura in ditta individuale), oppure (ii) ricostituzione del capitale da parte degli altri soci

Separazione consensuale fra coniugi e trasferimento di diritti immobiliari




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SEPARAZIONE CONSENSUALE FRA CONIUGI

ACCORDO PER IL TRASFERIMENTO DI BENI IMMOBILI

(10 piccole cose da sapere)

In caso di stipula dell'atto definitivo già in sede di separazione o divorzio, le parti dovranno:

1. inserire nell'atto la chiara ed in equivoca manifestazione di volontà ex art. 1376 c.c. di procedere al trasferimento e conseguentemente all’accettazione tenendo presente che non è un atto di compravendita;
2. inserire i dati dell'atto di provenienza dell' immobile, con la specificazione del notaio,della data dell'atto e degli estremi di registrazione e di trascrizione;
3. indicare il diritto reale che viene trasferito, la sua quota e la precisa identificazione attuale degli immobili con specificazione della natura o categoria, del foglio, del mappale, del subalterno e con I'indicazione di almeno tre confini;
4. per i fabbricati in corso di accatastamento e per quelli privi del codice di identificazione catastale, bisogna specificare il numero e I'anno del protocollo della denuncia di accatastamento della scheda o della variazione;
5. per gli immobili in corso di costruzione devono essere indicati i dati di identificazione Catastale del terreno su cui insistono;
6. specificare se I'immobile sia gravato da ipoteca e/o da altro peso;
7. indicare le ipoteche cancellate ex L. 401/2007 (cd. Bersani);
8. indicare la rinuncia all'iscrizione di ipoteca legale;
9. indicare la rendita catastale;
10. Indicare la richiesta dei benefici prima casa

PATTO PARASOCIALE NELLA SRL



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PATTI PARASOCIALI NELLE S.R.L.
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I patti parasociali sono accordi cd. extra-sociali poiché adottati fuori dall’atto costitutivo attraverso i quali si intende regolare il futuro comportamento degli aderenti al patto, soci e non soci (inclusa anche la stessa costituenda società), all’atto della formale costituzione del vincolo associativo o anche nel corso della vita della società.  Tali accordi in particolare vengono formulati per regolare, tra gli aderenti (o tra alcuni di loro), uno o più profili concernenti gli aspetti salienti dei propri diritti e doveri all’interno della società, oppure per un generale adattamento a sopravvenute esigenze societarie.
Attraverso il patto parasociale, gli aderenti si propongono dunque di dare un indirizzo all’organizzazione e alla gestione delle società, per assicurare la stabilità degli assetti proprietari e regolare il controllo societario, in modo più agile e flessibile rispetto al modello legale.
La validità ed efficacia di tali accordi, prima contestata, è stata ormai riconosciuta sia dalla giurisprudenza e sia dal legislatore, ma per lungo tempo il fenomeno è stato assai diffuso nella prassi.
Il codice civile disciplina i patti parasociali espressamente per le S.p.A., con gli artt. 2341 bis 2341 ter, in quanto, a seguito della riforma del diritto societario, era più sentita in questa tipologia societaria, rispetto alle altre, l’esigenza di garantire regole certe e definite in considerazione della maggiore rilevanza per il pubblico e per il mercato finanziario. Tuttavia è la stessa relazione governativa al D.Lgs. n.6/2003 a puntualizzare che analoghi patti possano riguardare altre forme societarie, per le quali si renderà applicabile la disciplina generale dei contratti e dell’autonomia privata.
La forma del patto parasociale è assolutamente libera, per cui la forma scritta, la scrittura privata autenticata o l’atto pubblico, sono richiesti solo se l’accordo si sostanzia in un negozio che la richieda ad substantiam, o per adempiere agli obblighi di comunicazione e pubblicità previsti dalla legge.
Qual è la differenza tra patti parasociali e atto costitutivo? L’atto costitutivo ha una validità erga omnes mentre i patti parasociali hanno efficacia reale solo tra le parti. In questo modo l’eventuale inadempimento avrà una mera conseguenza risarcitoria tra le parti, non essendo il patto opponibile alla società e, quindi, ai terzi. I patti parasociali, infatti, producono i loro effetti di natura obbligatoria soltanto fra i soci che li hanno sottoscritti e la loro violazione produce effetti, di tipo risarcitorio, solo a favore degli aderenti, essendo prevalente l’elemento dell’intuitu personae.
Contrariamente dunque a quanto avviene per lo statuto sociale, che ha come noto efficacia reale, e come tale vincolante tutti i soci, attuali e futuri, i patti parasociali hanno un’efficacia meramente obbligatoria, per cui vincolano solo i soci contraenti e non sono opponibili agli eventuali altri soci non aderenti, alla società ed ai terzi in genere (principio c.d. di relatività ex art.1372 cc).
Ne discende che la violazione dei patti parasociali non può viziare la deliberazione assembleare assunta anche in conseguenza. La cessione ad esempio di azioni o quote societarie in violazione di un sindacato di blocco, è perfettamente valida ed efficace nei confronti del terzo acquirente e della società stessa.  Allo stesso modo, nel caso del mancato rispetto del patto parasociale non si avrà alcun effetto sulla legittimità della deliberazione assembleare, essendo esperibile la sola azione di risarcimento nei confronti del socio inadempiente.
Nella prassi spesso si ricorrere ad un patto parasociale al fine di prevedere l’inalienabilità della partecipazione o la restrizione della sua circolazione senza consentire al socio il diritto di recesso. Oppure prevedere degli accordi in base ai quali i soci decidono criteri di ripartizione degli utili o delle perdite diversi da quelli stabiliti dallo statuto o dall’atto costitutivo.
I soci di una s.r.l. ad esempio potrebbero essere interessati alla stesura di patti parasociali per coinvolgere soltanto alcuni soci oppure soggetti terzi estranei alla compagine sociale, fattispecie non regolamentabile in sede statutaria.

mercoledì 18 marzo 2015

VOLUNTARY DISCLOSURE - CIRCOLARE ADE 10E/2015








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VOLUNTARY DISCLOSURE
(rientro spontaneo di capitali detenuti all'estero)

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La Legge 186/2014 recante “Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché del potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio”, ha introdotto una disciplina per facilitare il rientro dei capitali dall’estero.  

Detta legge, sebbene sia già è in vigore a partire dal 1° gennaio scorso, tuttavia per essere operativa necessitava di un provvedimento ad hoc del direttore dell’Agenzia delle Entrate per la regolamentazione delle modalità di presentazione dell’istanza di collaborazione volontaria e di pagamento dei relativi debiti tributari, nonché ogni  altra  modalità applicativa della relativa procedura. 

Ebbene, con la circolare n. 10/E del 13 marzo 2015, l’agenzia delle Entrate ha finalmente fornito tali istruzioni al riguardo. 


SOGGETTI INTERESSATI

Innanzitutto, la presente procedura è destinata solo alle persone fisiche, agli enti non commerciali, alle società semplici ed associazioni equiparate, che in passato abbiano localizzato fittiziamente all’estero la propria residenza fiscale, violando gli obblighi in materia di monitoraggio fiscale.

Può avvalersi della presente procedura altresì il  contribuente che detiene attività all’estero senza esserne formalmente intestatario avendo fatto ricorso ad un soggetto interposto o a intestazioni fiduciarie estere.

Nel novero dei soggetti che si possono avvalere della procedura vi sono anche gli eredi di investimenti e attività di natura finanziaria detenute all’estero dal de cuius in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale.

REQUISITO DELLA RESIDENZA

E’ sufficiente che il soggetto che intenda aderire alla voluntary disclosure sia stato fiscalmente residente in Italia in almeno uno dei periodi d’imposta per i quali è attivabile la procedura.
È il caso, ad esempio, delle persone fisiche che nel 2012-2013 si sono trasferite dall’Italia verso un Paese black list e poi nel 2014 sono ritornati in Italia (o hanno spostato la residenza in altro stato white list) e che potrebbero trovare conveniente regolarizzare solo i periodi d’imposta in cui hanno fissato la residenza in uno Stato black list.

Si considerano residenti “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. L’accesso alla procedura, pertanto, può essere validamente richiesto anche da coloro che, pur non essendo stati iscritti all’anagrafe della popolazione  residente, abbiano comunque, di fatto, fissato il proprio domicilio o la residenza ai sensi del codice civile nel territori o dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta.

Tale caso ricorre, ad esempio, quando un artista o uno sportivo straniero, pur non avendo provveduto nei termini di legge alla propria iscrizione nei registri dell’anagrafe della popolazione residente, abbia comunque trasferito nel territorio italiano la propria dimora abituale o vi abbia stabilito il proprio domicilio, per la maggior parte di uno qualsiasi dei periodi d’imposta interessati dalla procedura.   Allo stesso modo,  possono usufruire della procedura i cittadini italiani che, pur essendosi iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), abbiano comunque mantenuto nel territorio dello Stato il proprio domicilio o abbiano, di fatto, continuato a dimorare abitualmente in Italia (cosiddetti estero residenti fittizi).

Nell’ambito delle valutazioni di convenienza relative all’adesione alla procedura di voluntary disclosure, un soggetto che abbia fissato in passato la propria residenza in un Paese white list deve comunque considerare sia le disposizioni contenute nella Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e tale Paese, sia l’evoluzione della prassi e della giurisprudenza sul tema della residenza fiscale. A titolo di esempio, bisogna tenere sempre presente che l’iscrizione all’Aire per la maggior parte del periodo d’imposta è condizione necessaria, ma non sufficiente, ai fini dell’esclusione della sussistenza della residenza fiscale in Italia (risoluzione 351/E del 2008).

La maggior parte delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia prevede che la residenza di una persona fisica, nel corso di un periodo d’imposta, sussista in uno solo degli Stati contraenti. Esistono però delle eccezioni, come nel caso della Convenzione stipulata tra l’Italia e la Germania, nell’ambito della quale è prevista la possibilità che il periodo d’imposta possa essere “frazionato”. Infatti, le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale dall’Italia verso la Germania e viceversa sono considerate residenti fiscali nello Stato di provenienza fino alla fine del giorno in cui è stato effettuato il cambio di domicilio e residenti nell’altro Stato a partire dal giorno successivo.

BENEFICI:

Quali sono i benefici in caso di collaborazione volontaria ?

• Riduzione delle sanzioni amministrative  relative all’omessa
compilazione del quadro RW (art. 5- quinquies, comma 2 del D.L. n. 167/90 – aggiunto dall’art. 1 del D.L. n. 4/2014);
• Benefici penali in caso di commissione di reati tributari (art. 5-quinquies, comma 1):
a) non punibilità per i reati di dichiarazione infedele e omessa  dichiarazione (artt. 4 e 5 del D.Lgs. 74/00);
b) pena ridotta per i reati di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3 del D.Lgs. 74/00).

Quali sono le sanzioni per omessa compilazione quadro RW?

·        Sanzione dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato degli importi di investimenti esteri o attività estere;
·        Se collocati in Paesi Black listla sanzione aumenta da un minimo del 6% ad un massimo del 30%;
·        In caso di dichiarazione presentata entro 90 giorni dal termine di scadenza: sanzione fissa di euro 258.

Quali sono i benefici penali?

·        Nei confronti di colui che presta la collaborazione volontaria è esclusa la  punibilità per i delitti di cui agli artt.  4 e 5  del D.Lgs. n. 74/00;
·        Nei confronti di colui che presta la collaborazione volontaria le  pene previste per  i delitti di cui agli  artt. 2 e 3 del D.Lgs. n. 74/00 sono diminuite fino alla metà.

Equitalia: 2° piano di rateazione debiti fiscali (Decreto Milleproroghe 2015)



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Equitalia: 2° piano di rateazione debiti fiscali

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La Legge n. 11/2015 di conversione del Decreto Milleproroghe (D.L. n. 192/2014), in vigore dal 1° marzo 2015, ha introdotto la possibilità di accedere a un nuovo piano di rateazione dei debiti fiscali per i contribuenti decaduti dal beneficio fino al 31 dicembre 2014.

I contribuenti dunque che per varie ragioni non hanno potuto onorare le rate relative al precedente piano di rientro ed hanno ricevuto da Equitalia la comunicazione di decadenza dal piano di rientro, potranno richiedere un secondo piano di rientro fino a un massimo di 72 rate (6 anni).

Tuttavia, il nuovo piano concesso non è prorogabile e decade in caso di mancato pagamento di due rate, anche non consecutive, anziché otto rate.

Il comma 12-quinquies dell’art. 10 del Decreto Milleproroghe, infatti, ha inoltre disposto che, a seguito della presentazione della richiesta, non possono essere avviate nuove azioni esecutive e che, se la rateazione è richiesta dopo una segnalazione effettuata da una P.A. prima di eseguire un pagamento la stessa non può essere concessa limitatamente agli importi che ne costituiscono oggetto.

Come segnalato nella nota diffusa da Equitalia, attualmente circa la metà delle riscossioni avviene tramite pagamento dilazionato: nei mesi di gennaio e febbraio 2015 sono state presentate in media circa 20 mila nuove richieste alla settimana, portando l’ammontare complessivo di rateazioni a oltre 2,5 milioni, per un importo di circa 28,5 miliardi di euro. Quanto alle riscossioni, nel 2014 risultano recuperati 7,4 miliardi di euro, con un incremento del 4% rispetto al 2013, e 1,2 miliardi nei primi due mesi del 2015, importo in linea con il corrispondente periodo dell’anno precedente.
 

 

Documenti da allegare:

- debiti fino a 50 mila euro: certificazione ISEE del proprio nucleo familiare rilasciata da Comuni, CAF convenzionati, Amministrazioni Pubbliche erogatrici di prestazioni sociali agevolate, INPS. 

- debiti oltre 50 mila euro: documentazione idonea a rappresentare la situazione economico-finanziaria del contribuente. 

(in caso società: prospetto per la determinazione dell’Indice di Liquidità e dell’Indice Alfa, visura camerale aggiornata, copia dell’ultimo bilancio approvato e depositato presso l’Ufficio del Registro, relazione economico-patrimoniale, redatta secondo i criteri previsti dall’art. 2423 e ss. Codice civile, risalente a non oltre 2 mesi dalla data di presentazione dell’istanza di rateazione e comprensiva di tutte le voci del debito complessivo per il quale l’agente della riscossione procede, ossia la somma dell’importo iscritto a ruolo residuo da corrispondere in base al/ai precedente/i provvedimento/i di rateazione/i e dell’eventuale nuovo debito).




domenica 8 marzo 2015

Cassazione Tributaria, sentenza 11 febbraio 2015 / Equitalia deve dimostrare il contenuto della raccomandata


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Cassazione Tributaria, sentenza depositata l’11 febbraio 2015

Cartella per posta: Equitalia deve dimostrare il contenuto della raccomandata

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Se il contribuente nega di avere ricevuto la cartella di pagamento inviata per posta, spetta a Equitalia dimostrare l’esatto contenuto del plico raccomandato.
Non è corretto affermare che la spedizione effettuata dall’agente della riscossione dà di per sé garanzia che nella busta vi era la cartella di pagamento.
È quanto si ricava dalla sentenza 11 febbraio 2015 n. 2625 della Corte di Cassazione - Sezione Tributaria.
Precisamente i giudici con l’ermellino hanno riaffermato il principio per cui, “nel caso di notifica della cartella di pagamento mediante l'invio diretto di una busta chiusa raccomandata postale, è onere del mittente il plico raccomandato fornire la dimostrazione del suo esatto contenuto, allorché risulti solo la cartolina di ricevimento ed il destinatario contesti il contenuto della busta medesima” (ex multis, n. 18252 del 2013).
Il richiamato principio, ad avviso dei supremi giudici, non soffre di eccezioni in ragione di qualità soggettive del mittente, tenuto anzi al rispetto dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede col contribuente.
Il caso. Un contribuente pugliese si era visto dare torto nei primi due gradi di giudizio rispetto a un fermo
amministrativo non preceduto, a suo dire, dalla regolare notifica della cartella di pagamento.
La CTP e la CTR non hanno nutrito dubbi sul fatto che nella raccomandata spedita da Equitalia vi fosse l’atto presupposto, in quanto la spedizione era stata “effettuata pur sempre dal concessionario, che offre sufficienti garanzie in tal senso”; inoltre “l’estratto di cartella depositato conteneva un elenco di codici e numeri corrispondenti a quelli richiesti dall’originaria cartella”.
Ebbene, secondo la Suprema Corte, il contribuente ha lamentato, a buon diritto, la violazione e falsa applicazione degli articoli 26 D.P.R. 602/73, 1335 e 2697 cod. civ., in quanto, in caso di contestazione relativa al contenuto della busta spedita, l’onere della prova di detto contenuto spetta al mittente medesimo, anche quando si tratta del concessionario della riscossione.
La S.C. ha rinviato alla CTR della Puglia per nuovo giudizio.